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Gianni
Ferrara
HAIKU
Edizioni Club Ausonia
www.diel.it/HELIOS/ClubAusonia/HAIKU.html
Introduzione
e...
Perché un giovane poeta italiano dei nostri giorni sente il bisogno di esprimersi
con una forma artistica propria di una cultura così lontana dalle tradizioni
occidentali quale gli Haiku giapponesi?
Versi che esprimono, con estrema sintesi, sensazioni e sentimenti che emergono
dallo spirito immediati, quasi da una fase di "sogno", e che sono imbevuti di
profonda solitudine; che esprimono la voglia di uscire da una realtà che viene
percepita come "pesante", troppo gravosa da sopportare da chi invece cerca una
dimensione spirituale di armonia e di amore.
C'é il rifiuto della corporeità e dell'immagine nei versi di Gianni Ferrara,
e ciò in una realtà in cui questi elementi sono continuamente sbattuti in faccia
a tutti attraverso le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, che offrono
prototipi estetici a cui conformarsi acriticamente.
Modelli accattivanti di belli a tutti costi e vuoti per necessità.
Anche se con la voglia struggente di essere riconosciuti come individui, vengono
attratti dal vuoto per la necessità di non sentirsi diversi, perché il pensiero
originale ha bisogno di "rallentare" il flusso delle immagini, e se si rallenta
questo flusso non si riesce ad apparire, e chi non appare oggi non esiste.
Pochi, secondo questa logica, esistono, perché in fondo pochi riescono ad apparire.
Invece la poetica di Gianni Ferrara esprime una "terza via", la via dei sentimenti
espressi con immagini dello spirito e non del corpo.
Ma anche il suo modo di esprimersi e di ricercare tramite la poesia un'armonia
spirituale eterea é pervasa sostanzialmente dal rifiuto della vita espresso
attraverso il rifiuto della corporeità.
Un elemento che accomuna il nostro poeta ai giovani della sua generazione, che
ne fa un'espressione fedele di un pensiero che é certamente nichilista, che
esprime una profonda mancanza di speranza, di fiducia nelle capacità individuali
di agire e lasciare effetti che abbiano un valore non effimero; un atteggiamento
smarrito nella inutilità di un futuro in cui non si crede, di un futuro che
sembra infischiarsene dei sogni, dei sentimenti e di un eros appassionato che
ricongiunga i giovani alla vita.
Tutto ciò i giovani lo vivono accasciati e depressi, smarriti in questo presente
senza progetto, e non possono far altro che rifuggiarsi in sé stessi, travestiti
da simboli esoterici, che quando raggiungono vette di autentica raffinatezza
artistica si possono anche appropriare di quelle forme stilistiche come gli
Haiku giapponesi, così come ha fatto magistralmente Gianni Ferrara, che é giunto
ai "versi crisalide" non per una ricerca stilistica a priori, ma perché, affascinato
dalle filosofie orientali, soprattutto zen, trova negli Haiku una forma artistica
che lo cattura con naturalezza, che utilizza con grande padronanza e leggerezza,
che egli usa per esprimere il suo mondo interiore, il mondo interiore di un
giovane occidentale dei nostri giorni, con i suoi bisogni e le sue paure, pronto
a destarsi dal sonno di loto e cavalcare la vita.
Noi siamo convinti che "ogni azione, anche la più piccola, produce un effetto
che condiziona tutto e tutti" e che quindi c'é la possibilità di progettare
un futuro, in cui i sentimenti e la fisicità siano insieme l'espressione dell'essere
uomini, ma l'opera di Gianni Ferrara merita di essere letta ed "assaporata"
soprattutto per capire i perché delle tante contraddizioni autentiche e drammatiche
che i giovani oggi vivono e per le quali, spesso, scelgono di morire, senza
atti eroici o gesti di denuncia ma solo per non sopportare il "peso del vuoto".
Amare Gianni Ferrara é facile, quello che é difficile é creare il clima di amore
attorno a lui; quel desiderio d'amore che viene fuori forte ed angosciato dai
suoi Haiku, che non abbattono i muri per fare entrare la luce dell'armonia e
dell'eros, ma che lasciano un tenue spiraglio da cui traspare la speranza di
essere travolti dalla vita.
Pino Rotta
Direttore di HELIOS Magazine
Introduzione
storica
Lo haiku ( HAI: viandante - KU: poesia) è un componimento poetico originatosi
sulla preesistente struttura del waka o tanka, la più antica forma di poesia
giapponese, modificatasi col passare dei secoli anche in relazione ai cambiamenti
intercorsi nella situazione culturale ed economica dell'arcipelago per giungere
sino ai giorni nostri nella sua forma attuale. Nonostante le difficoltà insite
nell'idioma nipponico, notoriamente sillabico e privo di accentazioni e perciò
scarsamente adattabile alla forma poetica, gli autori hanno risolto questo problema
tramite la sostituzione della metrica e delle rime con un sistema di sillabe
fisse ed un uso studiato delle ripetizioni vocaliche all'interno dello stesso
verso, al fine di ottenere un certo effetto musicale; questa capacità di creare
una musicalità senza rime resta senz'altro una delle più alte realizzazioni
dei poeti giapponesi.
L'originaria forma poetica, il waka, era strutturata su una serie di cinque
versi composti rispettivamente da 5-7-5-7-7 sillabe; esso rappresentava un tipo
di poesia espressione della classe aristocratica allora dominante. In epoca
successiva, con il progressivo indebolirsi dell'aristocrazia, cominciò ad affermarsi
il renga che riprendeva nella sua forma la stessa struttura del waka, ma sul
quale pesava tutto un complesso di norme stilistiche e di regole formali che
arrivava fino a sanzionare in quale verso, ad esempio, dovesse essere menzionata
una determinata stagione, in quale altro la luna oppure i fiori di ciliegio.
L'ostacolo costituito da questo sistema di rigida imposizione e limitazione
rappresentò una barriera difficilmente sormontabile per l'affermarsi della creatività
dei singoli autori e ben presto il renga degenerò in una forma di gioco di società
diffuso in tutte le classi sociali del paese, dai samurai ai contadini.
Il renga veniva composto da più autori e di solito colui il quale era considerato
il più saggio ed esperto tra i partecipanti componeva i primi tre versi (hokku)
e scriveva il soggetto portante della composizione ai quali il secondo legava
i due versi rimanenti e così via fino anche a cento strofe. Il risultato finale
difficilmente poteva dare l'idea di un componimento omogeneo, in quanto ogni
singola parte, se separata dall'insieme, appariva dotata di una propria vita
autonoma. Dallo hokku che già era una composizione finita ebbe origine lo haiku,
come moto di reazione alle norme stilistiche che gravavano sul renga ed anche
come forma d'espressione della nuova classe mercantile in ascesa.
Nelle poesie create dai haijin (maestri di haiku) vengono utilizzati solo i
primi tre versi del renga (5-7-5 sillabe) in esse riflette pienamente lo spirito,
la mentalità e la cultura del popolo nipponico. Per i haijin, grandi viaggiatori
e spesso anche maestri di Buddismo Zen, della cui filosofia sono impregnati
molti componimenti, ogni minimo aspetto della realtà è degno di considerazione
e di attenzione poichè ogni forma è penetrata dall'energia vitale ed ogni sfaccettatura
del reale nasconde l'essenza dello yugen ( il mistero ) che congiunge ciò che
è misterioso, nascosto, con la realtà concreta, senza rifiutare nessuno dei
due aspetti.
E l'essenza del mistero non può essere compresa razionalmente, occorre immedesimarsi
nella situazione descritta dal poeta, calarsi completamente nella sua realtà,
per divenire capaci di cogliere le vibrazioni. Da qui la spontaneità e l'immediatezza,
caratteristiche principali dello haiku. Se l'uomo vuole confrontarsi con il
mistero tramite le parole allora la stessa dovrà lasciare da parte ogni enfasi
descrittiva e ricercatezza estetica o ridondanza di stile, per giungere alla
vera bellezza attraverso la strada maestra della semplicità. Spontanietà ed
immediatezza garantiscono la fulminante espressività dello haiku che coglie
nel segno solo se riesce a catturare l'attimo fuggente della scena vissuta ed
a riverberare i colori e le immagini nella mente del lettore.
Tra tutti i maestri di haiku, Bashò (1644-1694) è ritenuto il principale autore
ed anche colui al quale maggiormente si deve l'apporto della cultura Zen nella
poesia giapponese. La peculiarità del suo stile è data dalla capacità di creare
e trasmettere le sue sensazioni al lettore utilizzando soprattutto similitudini
e metafore tratte dall'immenso poema della natura i cui protagonisti sono gli
uccelli con i loro canti, le farfalle con il battito delle loro ali, i profumi
dei fiori, il sole oppure i colori delle stagioni , con i quali il poeta e maestro
Zen si fonde con reverenza ma con uguale distacco.
Tra i poeti di haiku contemporanei vi è in atto una ricerca di superamento dei
rigidi limiti sillabici, che indubbiamente rappresentano una forma di costrizione,
nel tentativo di accentuare l'immediatezza (Per tale motivo due degli haiku
di questa raccolta non rispondono al canone sillabico) e la spontaneità delle
impressioni che l'autore desidera esprimere nei suoi componimenti.
Ernesto Menga
Note
bibliografiche:
- AA.VV., Il muschio e la rugiada - BUR , Milano, 1996
- G. Pasqualotto, Estetica del vuoto - Marsilio, Venezia, 1992
- T. Hoover, La cultura Zen - Mondadori, Milano, 1981
- L. V. Arena, Haiku - Superclassici Rizzoli, Milano, 1995
Presentazione
Il lettore occidentale deve ricordare che un buon Haiku è un ciottolo gettato
nello stagno della mente.
Esso lo invita a partecipare, invece di lasciarlo ammutolito di ammirazione.
Gli stati d'animo che affiorano da questa "poesia senza parole", di solo diciassette
sillabe, che afferra il tema e subito lo lascia cadere, sono la quieta e intensa
solitudine del "sabi", l'inatteso riconoscimento della fiduciosa quiddità delle
cose comuni del "wabi", la nostalgia dello "aware" ed il mistero contenuto nello
"yugen".
Gianni Ferrara, in questa raccolta di versi, ci accompagna per mano, con spontaneità
e naturalezza (Tzujan), attraverso paesaggi tratteggiati con rapidi tocchi di
pennello (Onda azzurra non temere gli scogli tu sei il mare) invitandoci a guardare
il mondo che ci circonda con uno sguardo nuovo.
Oggi sembra che la nostra vita sia tutto "passato" e "futuro", e che il presente
non sia niente di più di un capello infinitesimale che li divide, come conseguenza
abbiamo la sensazione di "non avere tempo", di vivere in un mondo che si affretta
con tale rapidità da farci trascorrere le giornate prima di averle vissute.
Oggi professori, studenti, artisti, impiegati, uomini d'affari, massaie cercano
nello "zen" la spiritualità che manca al "mondo occidentale", dove l'unico oggetto
"sacro" e capace di imporre comportamenti, mode, stili di vita è la televisione
(schiavi di troppi protocolli, l'abisso, l'uniformità).
Lo Zen non crea "sette" e "santoni", spiega solo come poter vivere diversamente
senza abbandonare lavoro e famiglia, ma rivalutando se stessi, il proprio potenziale,
l'ambiente in cui abitualmente si abita.
Gianni Ferrara, pur venerando il libro "Lo Zen e il tiro con l'arco", scritto
da Eugen Herrigel, (professore universitario che per cinque anni andò a vivere
in Giappone sottoponendosi a prove sconcertanti per iniziarsi al tiro con l'arco
secondo lo stile Zen) conduce una vita normalissima (l'università "facoltà di
filosofia", gli amici del "muretto", l'impegno civile e ambientalista) e non
ha bisogno di vestirsi arancione per provare ad accedere allo stato di "satori"
o illuminazione che è l'obiettivo ultimo della disciplina zen (nato urlando
cerco un senso in un mondo d'asfalto).
Naturalmente un allievo, ha affermato un maestro, deve approfondire per anni
lo zen, preparandosi alle delusioni "di una zanzara che voglia rompere una sbarra
di ferro" per poter vivere una vita illuminata.
A questo punto mi piace immaginare Gianni Ferrara in un giardino "zen", con
rocce disposte in una formazione apparentemente casuale sopra il pavimento di
sabbia, un giardino ideale dove ci si muove lentamente contemplando oggetto
semplici, dove i "silenzi" possono diventare rumorosi come "tuoni".
Il leggero movimento, quasi impercettibile, della mia mano mi riporta alla realtà.
Una frase del maestro "Eckhart" riecheggia nella mia mente: "Un uomo ha in se
molte pelli che ricoprono le profondità del suo cuore, l'uomo sa molte cose,
ma non conosce se stesso, trenta o quaranta spessori di pelle, dura come quella
del bue o dell'orso, ricoprono la sua anima, sfoglia te stesso".
Alberto Dedola
HAIKU
Non
ti vidi più
trovai lacrime di
cose non dette
Temo il sogno
che porta gli spettri di
una speranza
Abbandonato
dal calore sarò un
volto per pochi
Gesti vuoti si
ripetono, la vita
ride di me
Fragili sono
i sogni: maledetta
corporalità
Un altro anno
si consuma, un altro
sogno sepolto
Raggiunta ora
tu svanisci, rugiada
di un mattino
Dispiegano le
ali, voli d'uccelli:
quanta invidia
Fiore bianco di
susino è tenue il
tuo profumo
Intensa splende
nel cielo estivo la
stella morente
Bassi rintocchi,
sei anche tu sconfitta,
dalla ruggine
Con l'alba, torna
la delusa stanchezza
del cormorano
Sopra tremanti
membra aleggia l'ombra
d'un Dio vile
Cicli di vite
passate, un attimo
di felicità
Suadenti voci
femminili, belle le
loro menzogne
I nuovi pianti
colmeranno lo spazio
da te lasciato
Ti ho amata:
nel mio dolore la
tua vanità
Anelli stretti
di desiderio, tristi
doni di Kama1
Gelido marmo,
quest'ultimo sigillo
della povertà
Ogni giorno si
apre tra le ferite
di un addio
D'inguaribili
pene mi struggo, nutro
l'eterna gleba
Mani pregano,
figure misere di
vite urlate
In me, l'intera
notte senza luna del
mago sconfitto
Nel cuore, neri
mantelli tessuti da
pianti silenti
Non mi servono
Urabi2,
non bastano
gambe dischiuse
Recito, sotto
le pesanti maschere
di privazione
Il destino è
in cammino ed io
fermo attendo
Si dileguano
ricordi, sono solo
come nessuno
Notti insonni,
imprigiono la luce
in pochi versi
Elevami dal
ritmo cupo d'umane
solitudini
Mi stringevano
il volto, mani forti
di sofferenza
Pioggia notturna,
antichi menestrelli
suonano per me
Muovo sui lembi
del barlume e scorgo
tratti opachi
Mi allontano,
simile ai Silfi3
non
visto scruterò
Stretto nel pugno
il flauto, melodia
che non si ode
Lontane sono
le barche, solo sulla
fredda isola
Come nuvola
e acqua, libero dal
vano ilico
Rivolte verso
nord le spalle, aspetto
la primavera
Stretto in gola
un nome, luccicano
gocce amare
Vago per luoghi,
ed ovunque estraneo,
eternamente
Un'immagine
ritorna nelle notti
senza riposo
Schiavi di troppi
protocolli, l'abisso,
l'uniformità
Giace tra bende
madide di paura
l'uomo più alto
Sfioro riflessi
di calde sensazioni con
occhi mendici
Usa
le mie
mani per toccare le
mete sospese
Mishima, lama
di spada ed eterne
tracce d'inchiostro
Le quattro mura
dell'attesa, ampliano
l'isolamento
Sabbia ardente,
nel deserto segreto
di un poeta
Avidi perchè
incontrano l'antica
luce di Alfard4
Questa assenza,
dolorosi sussurri
si rinnovano
Sera d'autunno:
polverosi pensieri
seguono l'eco
Naufrago: meste
nubi disegnano il
tuo profilo
Parole sagge:
di silenzio veste la
Dea verità
Giocoso volo:
mosche annunciano la
morte del bruco
Strana la vita,
un aquilone gioca
con la tempesta
Frutti maturi
nel cesto: sono pronto
posso partire
Corpi stremati
dai sensi fragranti di
danze astrali
Non ho dimora,
corpi sottili, parti
d'astri errano
Vinco limiti,
passioni, un altro me:
campi aurali
Passi timidi,
ossessivi lamenti,
abiti neri
Onda azzurra:
non temere gli scogli
tu sei il mare
Lascio cadere
la veste materiale,
sposo il nulla
Esistevo già
nella quiete del Apas5,
prima del tempo
Spingermi oltre
questa settima realtà.
Notti cosmiche
Indicami la
via, vecchio custode
del labirinto
Una parola
vibrante, si dilata
la divinità
Incurante del
gelo notturno, fermo
sta l'iniziato
Ti cerco sugli
altari del mistero,
dissolvendomi
Solo frammenti
di un soffio, vittima
del divenire
Emergi dalla
notte, agita questo
mare immoto
Dita fragili
su palpebre serrate,
mille petali
Unghie e sangue
per giungere sull'alto
eremitaggio
Il cammino è
lungo: risvegliatemi
nel prato verde
Una porta si
apre stridendo, canto
della civetta
Sospeso alla
fune d'argento, vedo
ogni miseria
Le legioni di
zolfo, tra noi, arcane
invocazioni
Voglio cadere
e giacere avvolto
dall'assoluto
Siamo soltanto
sterpi immemori del
mito di Reivas6
Verso chi muovo
nel litoide distacco
dall'esistenza?
La prima età
sano gaudio ora è
metamorfosi
Per sette morti
ed oltre, ti amerò,
inesistente
Il vento nero
si abbatte su foglie
senza domani
Squarci d'ansimi
densi d'ardore, su di
te saldo, vivo
Vinto dal lieve
languire, mi perdo tra
foschi presagi
Spoglia, serica
pelle nel rifulgere
rivela l'alma
E dal torpore
d'iridi salate mi
desto più forte
T'offro pianeti
scarlatti traboccanti
di illusioni
Labbra umide,
gioia imprigionata
dalle parole
Dita veloci
disegnano ombre su
muri di carta
Come un bimbo
inseguo le lucciole,
pur temendole
Strati di fumo,
bicchieri rovesciati,
ho nausea di me
Posa la scure,
dal vecchio tronco sgorga
ambra giovane
La frenetica
movenza ci unisce,
poi il disgusto
Una visione
mi trattiene, su di me
soli di giada
Esco da te, i
flutti dei sospiri si
aggrovigliano
Devo fuggire
dal cibo che nutre il
vulnerabile
Il Re del mondo
creò l'inganno, mai più
suo suddito
Fugaci sbuffi:
venti caduti nelle
mani d'Atropo
Come austeri
Muni8 chiudo celesti
canti d'essenza
Non so credere,
tra pilastri velati
cerco rifugio
La mia sorte:
vasti orizzonti di
vette impervie
Alzo deliri
d'orride conclusioni,
pensando muoio
Ondeggio sulla
febbre dell'assurdo, di
spazio soffoco
Folle, inseguo
le sagome del vasto
invisibile
Distesi sopra
Lila7,
con nastri d'oro
ti lego a me
Sguardi: frammenti
d'anima trafiggono
intimamente
Taci, lascia che
muto sul tuo grembo
posi il capo.
1. Kama:
Nella mitologia indiana è il Dio dell'amore
2. Urabi: Vaticinatore del futuro giapponese
3. Silfi: Abitanti fantastici dell'aria che si nutrono d'etere
4. Alfard: Nome di una stella che in arabo significa La Solitaria
5. Apas: Parola sanscrita. Acque primordiali
6. Reivas: Nella mitologia persiana è l'albero dai cui rami nacquero la prima
coppia di uomini
7. Lila: Dal sanscrito, Gioco Divino
8. Muni: Asceti votati al silenzio