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Benedetto Macaronio
Trilogia di Haiku
http://www.akkuaria.com/benedettomacaronio/opere.htm

 

Presentazione

 

Aki kaze ya ganchu no mono mina haiku
Vento d’autunno —
allo sguardo
tutto è haiku
Takahama Kyôshi

M’illumino
d’immenso
Giuseppe Ungaretti

 

Trilogia nasce dal mio incontro con la poesia haiku grazie ad una nutrita raccolta di autori giapponesi di diversi periodi.

Conoscevo già qualche haiku, ma ne avevo provato solo un interesse superficiale. La lettura della raccolta, però, è stata l’impatto determinante che ha fatto scattare qualche molla segreta, spingendomi a cimentarmi in tale genere.

Il fattore decisivo è consistito non tanto nella tecnica metrica, vale a dire il numero delle sillabe dello haiku classico non sempre possibile da riprodurre, quanto in quella laconicità della espressione che supera di gran lunga i rigidi schemi del sonetto e la brevità del «frammento» greco.

L’haiku è una delle più delicate e raffinate espressioni di tutta la Poesia perché nella concisione di un linguaggio essenziale esprime densità di concetti ed eleganza di immagini.

Ed in queste sue qualità ho ritrovato quel fascino particolare che raramente si può cogliere in liriche di altro genere.

Solo in apparenza, e soltanto ad un occhio superficiale, potrebbe apparire staccato dal mondo reale: in verità esso ne percepisce gli aspetti più intrinseci alla stessa maniera di un flash che fissa per sempre l’attimo di un avvenimento.

Accostarvisi e, direi, viverlo è stata per me una esperienza stimolante, perché l’haiku rappresenta la poesia dell’intuizione, la poesia dell’ispirazione immediata (né potrebbe essere diversamente, per me come per chiunque altro), la poesia dell’« Augenblicke », a cui si vorrebbe poter dire, faustianamente: Verweile doch, du bist so schdn!

E, sempre secondo la mia esperienza, non bisogna cercarlo, poiché esso verrà da sé anche (o soprattutto) nei momenti più impensati: è una rapidissima fulgorazione di pensiero che bisogna arrestare sulla carta.

Secondo Matsuo Bashô cercarlo, poiché esso verrà da sé anche (o soprattutto) nei momenti più impensati: è una rapidissima fulgorazione di pensiero che bisogna arrestare sulla carta.

Secondo Matsuo Bashô, uno dei più grandi haijin, basta un bambino per comporre haiku; ma è sempre necessario essere ricettivi ad ogni aspetto del mondo che ci circonda per sorprenderne i particolari meno appariscenti e tradurli nella sinteticità del verso.

Ricordo un fatto molto significativo. Mi trovavo su un autobus fermo ad un passaggio a livello di campagna, in attesa che passasse il treno per avere via libera. Nel frattempo vidi un cane che abbaiava freneticamente dando strappi furiosi e vani alla catena che lo vincolava alla cuccia.

Preso da un’idea subitanea, scrissi due versi con 1’intenzione di svilupparne più tardi il concetto:

Legato alla catena:
solo la voce è libera
.

In séguito, rileggendoli, mi sono reso conto che non c’era altro da dire, e che ogni ulteriore aggiunta avrebbe annacquato il pensiero e diluita l’immagine.

Avevo espresso l’essenziale: era sufficiente.

Tutto ciò, credo, basta per giustificare davanti a me stesso e agli altri la scelta di scrivere haiku.

Non ho, comunque, la pretesa di fare qualcosa di nuovo rispetto alle forme tradizionali della Poesia europea ed americana perché autori del vecchio e del nuovo continente si sono cimentati nella Poesia giapponese, e con risultati positivi.

Dirò soltanto che considero questa TRILOGIA un po’ come un taccuino, dove, a mano a mano e in forma stenografica, ho voluto appuntare tutte quelle sensazioni e impressioni che mi provengono sia dal mio intimo che dal mondo esterno.

Infatti, proprio in questo consiste ciò che inesattamente definiamo «ispirazione»: nell’impatto di determinati stimoli con la nostra sensibilità, non che nella capacità di esprimerne gli effetti in modo apprezzabile.

 

Trilogia di Haiku

Introduzione all'Opera di Benedetto Macaronio

 

L'haiku è una forma poetica di diciassette sillabe. Nacque in Giappone nel sedicesimo secolo all'interno della classe mercantile, ma si diffuse molto presto sia nelle classi aristocratiche che in quelle popolari. Diversamente, quindi, dalla waka e dalla renga, che furono espressione della classe aristocratica, l'haiku ha una origine che possiamo definire «borghese».

La nuova forma venne dapprima indicata col nome haikai, mentre solo nel XIX secolo fu chiamata definitivamente haiku.

Originariamente l'haikai era un poema di 36, 50 o 100 versi, composto da un gruppo di poeti nella seguente maniera. il poeta « maestro » dettava un verso, chiamato hokku, in tre righe di 5-7-5 sillabe, verso che restava il più importante perché designava il «tema ». Quindi un altro poeta aggiungeva un secondo verso di 5-7-5 sillabe, e così via fino alla fine.

L'haikai così concepito era un genere destinato ad isterilirsi molto presto, costituendo poco più che un gioco di società.

A dare all'haiku una nuova dignità fu Matsuo Bashô (1644-1694), oggi considerato il massimo poeta giapponese.

Nella produzione di Bashô è possibile distinguere due momenti: nel primo gli haiku esprimono immagini di carattere prevalentemente statico e contemplativo. Esempio ne è questo famoso haiku composto all'età di circa trentacinque anni:

Kare-eda ni
karasu-no tomari-keri
aki-no-kure

Su un ramo calcinato
s è posato un corvo –
crepuscolo autunnale

L'idea di movimento caratterizzerà la produzione successiva, in un secondo momento, in cui Bashò attingerà dalla dottrina Zen:

Furu ike ya
kawazu tobikomu
mizu no oto

Un antico stagno
vi salta una rana
il suono d'acqua

Gli haiku del secondo periodo di Bashô trasmettono immagini senza distorsioni e senza interpretazioni. Il poeta evita l'inserimento di proprie emozioni, ed è in questa «spersonalizzazione» che è possibile ravvisare una delle valenze basilari degli haiku.

Lo spirito Zen è molto smorzato nella produzione di Yosa Buson (1715-1783), il maggiore continuatore di Bashô, il cui stile è prevalentemente vivace e gioioso.

Con Kobayashi Issa (1762-1826) l'haiku si fa sentimentale e malinconico, e con Masaoka Shiki (186 7-1902) si spoglia definitivamente da ogni influenza Zen.

I soggetti dell'haiku sono, fino all'epoca di Shiki, i più svariati, ma in genere vengono prediletti quelli di intonazione naturistica: fiori, stagioni, piante, animali, ma pure cibi, danze etc.

Con Shiki l'haiku si spoglia di questo abito tradizionale e cerca nuove vie, e si avvicina a moduli espressivi caratteristici della poesia occidentale.

Con Kawahigashi Hekigodo, ma soprattutto con Ogiwara Seiensui (1884-19 76) e Ozaki Hosai (18 85-192 6), l'haiku, alla ricerca di nuove tecniche, abbandona lo schema 5-7-5 sillabe e adotta il verso libero.

Si legga, ad esempio, la seguente composizione di Hosai: 

Ido no Kurasa ni
waga kao o miidasu

Nel buio di un pozzo
ravviso il mio volto

Oggi in Giappone gli autori di haiku (haijin) sono divisi in due correnti: ma anche se la corrente tradizionale appare tuttora florida, soprattutto in Takahama Kyoshi (1874-1959), fondatore della rivista Hototogisu, e in Nakamura Kusatao (1901-vivente), è la corrente innovatrice che si rifà a Hekigodo quella a dominare il campo.

Vicini ad autori come Hekigodo, Seiensui e Hosai sono i poeti canadesi e statunitensi della «Società di Haiku d'America» che compongono i loro haiku direttamente in inglese.

Nei paesi anglosassoni l'haiku ha avuto nel nostro secolo una straordinaria diffusione: autori come Ezra Pound, William Carlos Williams, Wallace Stevens e Conrad Aiken hanno composto haiku.

Percepibile l'influsso degli haiku anche in qualche autore francese, come in Guillame Apollinaire, Paul Claudel. Blaise Cendrars e Paul Cocteau, e probabilmente anche il nostro Ungaretti del primo periodo avvertì le suggestioni dell'haiku.

All'haiku ed alla civiltà giaptonese ha dedicato recentemente un saggio il semiologo Roland Barthes, dal titolo « L'impero dei segni » (1970), libro non ancora tradotto in Italia.

Gli sviluppi del nostro secolo hanno reso l'haiku molto simile, in concreto, all'occidentale epigramma.

Tra l'uno e l'altro genere esiste oggi un diaframma sottilissimo, a malapena percettibile. Certo non è questa la sede per proporre la storia dell'epigramma, ma è indispensabile ricordare che questo genere ebbe sin dagli inizì, cioè dal secolo VII a.C. circa, un carattere funebre e dedicato rio (si pensi ai bellissimi epigrammi di Saffo, Simonide di Ceo, Archiloco o di Platone), e che successivamente, in epoca alessandrina (III secolo a.C.), si arricchì di contenuti conviviali, agresti ed amatorì (si considerino i poeti dell'Antologia Palatina come, ad esempio, Asclepiade di Samo, Leonida di Taranto e Meleagro di Gadara).

Con i romani l'epigramma fu caratterizzato da un elemento satirico, prima in Catullo e poi, in modo particolare, in Marziale.

Nella letteratura italiana l'epigramma apparve nel '500, introdotto da Luigi Alamanni. Particolare successo e diffusione ebbero le pasquinate, brevi composizioni a contenuto politico-satirico.

L'epigramma ad intonazione satirica fu parecchio vitale fino all'epoca dell'unità d'Italia, per dopo entrare lentamente nell'ombra.

Cercando in questo spazio di tempo che quasi raggiunge i tremila anni alcuni attributi comuni all'epigramma, si può dire, in linea di massima, che esso ebbe un carattere dedicatorio, gnomico e satirico, mentre l'haiku ebbe prevalentemente un carattere descrittivo o, per meglio dire, raffigurante un determinato aspetto del mondo circostante in relazione all'uomo.

Ma, è bene ribadire, questa distinzione ha solo un valore di massima, come sempre avviene quando si ricercano matrici comuni, in quanto tutt'altro che di rado uno dei due generi ha attributi dell'altro e viceversa. Questa tendenza s'è accentuata nel nostro secolo.

 

In questo volume sono presentate tre brevi raccolte di haiku di Benedetto Macaronio, che costituiscono un blocco unitario, una vera e propria trilogia.

Se «Brina di primavera» (Haru no shimo) e «Giardino» (Niwa) sono state scritte a rosso modo contemporaneamente a cavaliere tra il 1981 ed il 1982, «La strada e le maschere» è stata composta nei primi mesi del 1982, fino a primavera inoltrata.

Già nella prima raccolta, «Brina di primavera», appaiono gli elementi, comuni ma vissuti con diversa intensità, che caratterizzano la trilogia.

Così è per i temi della Solitudine e del Nulla, davvero dominanti, in cui si risolve l'intensità interiore dell'autore.

La Solitudine è intesa come condizione esistenziale primaria non solo caratterizza l'autore nel suo modo personale di intendere la realtà, ma che avvolge di significati il mondo esterno imprimendo ad esso una intrinseca colorazione.

Nello scarno succedersi delle composizioni, si ha un affastellarsi di momenti di nuda espressività (talora persino con attributi motteggianti), in cui il verso è giocato in dialettiche contrapposizioni (ad esempio: neve / fiamma o grido / silenzio) o in complementari fusioni di termini (ad esempio: alba / luce o bufera/ vento) È come se tutto fosse messo in perenne discussione, in cui la scelta è parzialità e compromissione.

Di qui un versificare interiormente tumultuoso, al di là della apparentemente semplice impostazione verbale.

Così l'ascesa al Nulla, il destino conclusivo d'ogni cosa, non è sereno placarsi, ma sdegno, ribellione, ironia. L'aspirazione ad uno status di fermo equilibrio appare la connotazione fondamentale di «Giardino » (Niwa).

Sul piano dell'espressione il discorso è identico, con, ad esempio, le solite contrapposizioni (frastuono / silenzio etc.).

Ma vi è in più, in questa raccolta, un maggiore rifiuto della realtà oggettivizzata, e di conseguenza una tendenza ad un «Niwa» in cui i contrasti di tipo individuale (ma anche ambientale) possano sopirsi. L'accento posto, e questo a me pare basilarmente indicativo, su una configurazione fantastica della natura, come locus risparmiato dalle violenze e dalle sofferenze.

Sono le conclusioni definitive di chi ha compiuto un rifiuto dal mondo, che è marcatamente distacco, insofferenza.

Ed ecco che allora Macaronio (da quel poeta eterogeneo ed assolutamente imprevedibile qual è) ci propone versi di questo genere:

DISSEMINAZIONE

Un refolo appena.
Ed il pappo
libero nei vortici dell'aria

Lo schema rispettato è ricorrente nella trilogia. L'haiku si apre con un rapido flash (in questo caso l'idea di refolo è data dal veloce succedersi di sei sillabe), cui segue uno svolgimento dove è esteriorizzata la tesi dell'autore in cui vi sono un protagonista (il pappo, in questo caso) ed una azione.

L'effetto, poi, di quel « vortici dell'aria », così apparentemente e strutturalmente semplice, è di una pastosa intensità musicale, ed è pregno di allusioni.

La lettura di questi haiku è allora di tipo verticale, in quanto l'haiku viene a con figurarsi come una infiorescenza verbale che presuppone, a monte, un complesso discorso preliminare, rivolto verso una concezione disillusa ed ai margini della realtà.

Ai margini, si è detto, cioè nella significazione di un soggetto che osserva distaccato, lucidamente, e che trae le sue conclusioni. A questo punto la con figurazione dell'autore è completa. essa verte fondamentalmente su tre aspetti, il primo sul suo « essere» che è solitario, gli altri sull'« agire », cioè sull'aspirare e sull'osservare.

Quest'ultimo aspetto introduce alla terza raccolta, «La strada e le maschere », certamente la più complessa della trilogia.

La raccolta si snoda lungo una vicenda lineare che prende le mosse d'avvio da quella concezione solipsistica che costituisce l'humus della poesia di Macaronio.

Questi haiku nascono da una osservazione marginale come collocazione dell'uomo, cioè come punto d'osservazione, ma penetrante per ciò che rileva alla sua intensità.

Ne scaturisce un quadro profondamente drammatico, ma l'occhio del poeta non si compiace, e scruta, dalla sua prospettiva, senza il sostegno di una fede religiosa o di una ideologia politica.

Si legga, a proposito di quest'ultimo punto, « Manifesti ».

 

Urlano dai muri

rabbie ideologiche.

Spirali d'illusioni.

 

o «Comizio ».

 

Grandinano parole

sulle piazze.

Stormi d'uccelli in fuga

 

Pure immersi nel baratro della me gaio poli e pure compartecipi di un identico destino, gli uomini vivono nell'indifferenza reciproca. Neppure la morte del prossimo riesce a spogliare l'uomo del suo abito di superficialità e cinismo.

Nell'autore, tuttavia, è presente l'aspirazione alla pace ed alla serenità: si legga, come proiezione freudiana, il quadretto idillico di « Giornata festiva ».

 

Chiacchierio tranquillo sulla piazza;

passi sereni; bimbi si trastullano.

Pace domenicale

 

Ma questa aspirazione è maggiormente presente, e direi dominante, nelle altre due raccolte, specie, come s e visto, in «Giardino ».

Ciò che preme maggiormente a Macaronio in «La strada e le maschere» è denunciare e raffigurare il modo di vivere disumanizzato delle città (e Roma, cui è dedicata la raccolta, può essere solo un pretesto).

Denunciare, quindi, fare prendere coscienza con il solo mezzo di cui l'autore dispone: la poesia.

E raffigurare, con poche parole, il « caos » che domina nella nostra società, nella quale la presenza dell'uomo si illanguidisce fino a scomparire.

Ecco quindi la raccolta popolarsi di personaggi, ciascuno avente un suo dramma, ciascuno tassello di una situazione diffusa.

Si guardi, ad esempio, al fruttaiolo il cui richiamo «sa di campagna », o al barbone «ombra lercia in un canto », o alla « battona accanto al falò solitario », o, in una delle poesie più straordinarie della raccolta, alla «svanita» col «cappellino a sghimbescio / e vesti squallide» che «ride da sola spersa tra la gente».

E si pensi anche al « passante distratto » nella cui distrazione è tutto raffigurato uno status dominante.

Solo di notte la città può apparire a dimensione d'uomo, e nelle sue strade, ora deserte e silenziose, l'animo umano infine si rasserena.

Nelle cinque parole di « Sollievo » è espressa tutta una filosofia:

 

Vie deserte.

Nessuno...

Tanta pace

 

Dopo quanto detto non è difficile identificare nella «strada» la vita stessa nella sua policromia apparente, e nelle « maschere » gli uomini con il loro habitus di superficialità e indifferenza.

Resta da chiarire a Questo punto perché l'autore abbia fatto ricorso allo stile haiku (a quello, per intenderci, che si rifà a Hekigodo).

È Macaronio stesso a dircelo, nella giustificazione alla raccolta, sostenendo che esso «rappresenta la poesia dell'ispirazione immediata ». Ecco perché aualifica le sue composizioni haiku e non, ad esempio, epigrammi.

Abbiamo visto sopra che, in genere, l'epigramma ha contenuto gnomico, dedicatorio o satirico, e che pure in esso è assente la tendenza a raffigurare subitanei stati d'animo.

Sotto questo profilo la scelta di Macaronio di ricorrere all'haiku è coerente, perché nelle composizioni della « Trilogia » vuole proporre, come in un album varie gato, le sue impressioni occasionali che gli suscita l'esperienza. Come in un album, s'è detto, ma con in più che le immagini non appaiono fredde o distaccate, ma bensì animate da una energia interna che le vivifica e le rende palpitanti.

Nel breve svolgere di tre versi Macaronio non pretende di esaurire il discorso, che anzi lascia aperto volutamente alle riflessioni del lettore. In fatti gli haiku della «Trilogia» non si concludono con il canonico punto finale, ma restano «aperti», come a significare che il lettore può completare la composizione con suoi rilievi personali.

In fine c'è da auspicare che la lettura di questi haiku sia un avvio, per molti, ad un genere nel complesso, da noi, poco conosci uto; e d'altra parte c'è da sottolineare che questa «Trilogia di haiku » costituisce un capitolo di non trascurabile significato per la comprensione dell'autore di «Lascia che i morti... » e di «Labirynthos ».

Catania, febbraio 1983

Renato Pennisi

 

La strada e le maschere
(A Roma, città dai mille vólti)

 

Manifesti

Urlano dai muri

rabbie ideologiche.

Spirali d’illusioni

 

Comizio

Grandinano parole

Sulle piazze.

Stormi d’uccelli in fuga

 

Folla sportiva a Roma

Orge di demenza sulle piazze.

Remote, nell’ombra, contemplano statue

velate da arcaici silenzi

   

Dopo la vittoria

Tifosi accesi. Urla di delirio.

Straripano le strade.

In un angolo tace la Ragione

 

Attorno al fercolo

Armento di fedeli

in processione.

Esalano spirali di chimere

 

Giornata festiva

Chiacchierio tranquillo sulla piazza;

passi sereni; bimbi si trastullano.

Pace domenicale.

 

Gioventù motorizzata

In roghi di follia

aride coscienze

sui motori rombanti

 

Megalopoli

Monadi, in unità meccaniche,

disperse sugli asfalti.

Ulula il caos

 

Eco agreste

Disperde il suo richiamo

il fruttaiolo che sa di campagna

nel frastuono riarso delle strade

 

Barbone

Ombra lercia in un canto.

Onde umane si sfanno

contro la sua miseria in abbandono

 

Via Appia notturna

Aspetta la battona

accanto al falò solitario.

Sfrecciano auto nell’oscurità

 

Svanita

Cappellino a sghimbescio

e vesti squallide.

Ride da sola spersa tra la gente

 

Accattone

Festuca spezzata.

Dispersa.

Rasentano vortici d’umanità

 

Due passanti

Un bimbo e un vecchio:

il primo in un silenzio di memorie;

l’altro il suo presente ha nel bambino

 

Ultimo tempo

Seduti su panchine.

Sonnecchi anti.

Ceneri spente crogiolate al sole

 

Vita

Tenace

tra lo sterile cemento

fa capolino un fiore

 

 

Haru No Shimo
(Brina di primavera)

Cammino dell'uomo

Calpestando

la polvere di ciò

che un dì saremo

 

Statua

Mare stellato.

Un solitario fuma sulla spiaggia.

Si dileguano uccelli nella notte

 

Risveglio

Quando tremula

l'alba è sul mare

lo sguardo si fa luce

 

Intimità

Mentre la neve s 'adagia

sbocciano fiori di fiamma.

S'espande una campana nella sera

 

Attimo

Le volute di fumo

tratteggiano fenici.

E poi più nulla

 

Esistenza

Nella bufera

l'albero si spoglia.

Inaridite foglie sparse al vento

 

Frustrazione

È travolto dal gelo

il bocciolo stentato

apparso sul confine dell'Inverno

 

Campana

Un brivido increspa

– sui monti

il bianco silenzio

 

Tramonto

Un altro giorno ancéra:

un passo conquistato

verso il Nulla

 

Ispirazione

Un quaderno, una penna

e tanta calma:

scaturiscono versi

 

Siesta

La pioggia arguta

canta sui selciato.

Un gatto sonnacchioso nel cantuccio

 

Specchio notturno

Bevono l'onde

il volto della Luna

 

Crepuscolo

Tramòntano fiori sui prati

Sbocciano stelle

nei campi notturni del cielo

 

Statica precarietà

Pencolante

– sul punto di finire –

immoto sopra l'orlo dell'abisso

 

Serenità

Nella baita,

vino buono ed un fuoco.

Ululante tormenta nelle tenebre

 

Mestizia

Sopra una grigia nota

inargenta la pioggia

li chiostri dell'Autunno

 

Niwa

(Giardino)

Primavera

Uccelli tra il fogliame.

L’albero antico

acquista la sua voce

 

Fiore

Indifferente

espande la sua forma

alla luce degli occhi

 

Ape

Qualche istante d’indugio

E via saetta

pregustando altri fiori

 

Caducità

Un bocciolo dischiuso.

Domani

petali sparsi al suolo

 

Ora mattutina

Sopra la ragnatela

la rugiada.

Perle di luce

 

Disseminazione

Un refolo appena.

Ed il pappo

libero nei vortici dell’aria

 

Quiete

In dormiveglia

ai piedi del susino.

Pensieri si disperdono

 

Abbandono

Soddisfatto del pasto,

sdraiato sotto l’albero.

Un alito di vento